La musica ha sempre giocato un ruolo fondamentale nel mio lavoro. Di formazione sono architetto, e l’architetto lo faccio ancora, “disegno case, disegno cose” mi piace dire, forse disegno più cose nell’arco di una settimana, di un mese, di un anno, ma compongo. La composizione racchiude e combina i fondamentali del comporre, le regole che puoi superare se – e solo se – le hai fatte tue – e se te la senti di farlo prima o poi, ovvio, con tutte le problematiche che la scelta comporta -, tutto ciò trova ordine in un vocabolario compositivo, mai statico e ferreo nella regola, ma sempre in evoluzione.
Ma qualcosa di più profondo regola il carattere del segno, del disegno, del comporre una scala di spazi, come una scala di note, qualcosa che detta le regole a chi alle regole si appoggia come a colui che le può finalmente decostruire per poi ricostruire in altro modo. Si chiama armonia. L’armonia sarebbe qualcosa di difficile da spiegare se non ci fosse la musica, tant’è che la musica è imprescindibile per conoscere, per capire, per il sentire di un compositore. Gli antichi greci misuravano i propri segni attraverso composizioni ritmiche e poi li ricostruivano secondo le regole dello spazio, poi ancora ne verificavano scala, proporzioni e intensità attraverso la percezione umana. Aberrazioni e regole, ecco il fatto. Io non ho la pretesa di essere un fine compositore – spesso sono ruvido nel contatto primo con la regola stessa – tant’è che sto lavorando da tempo alla traduzione dell mio linguaggio compositivo in un vocabolario comprensibile, visibile per le regole a cui mi appoggio, come a quelle che violento nel nome della sperimentazione. A volte non funziona, altre sì. Come nel caso di Echoes, laboriosa linea di ceramiche realizzata dopo tanti disegni. Tutto ciò può sembrare che racchiuda un controsenso o una forzatura, può darsi lo sia, visto il risultato apparentemente armonico e posato, ma è così, Echoes è sperimentazione rude ed effimera allo stesso tempo. Ho racchiuso in una cartella progetto una cosa come duecento disegni di studio e rilievo e altrettanti schizzi destinati a quelle che sarebbero state Disco (lo scrigno) e Pandora (il vaso) di Echoes.
La musica? La musica mi ha portato i suoni, non sempre melodici, sottofondi, vento, chitarre e tastiere, rombi di percussione e sonar campionati, grida preistoriche e antiche, il battito del cuore che sembra venire dal centro della terra una volta che ti svegli di soprassalto, una musica che non so se è stata proprio lei a dare il nome alla ceramica, ma che sicuramente ha contribuito alla gioia di disegnarla e vederla nascere, progredire, apprezzare, nascondersi per riaffiorare ora, dopo tanto tempo, con la nascita di Demo Ceramics.
Ho presentato una Disco di Echoes in finitura di acciaio cromato a specchio (PVD – Physical Vapour Deposition) durante la prima mostra che ho fatto in Ottobre scorso presso il Laboratorio di Renata Bonfanti – e in merito alla quale dedicherò presto un articolo in Supergiallo Blog – dopo questo lungo periodo di gestazione, un pezzo quindi progettato e programmato per un’ edizione limitata di otto esemplari in totale. Un pezzo difficile soprattutto per la realizzazione, dopo un lungo studio sugli strati costituenti il supporto di preparazione per accogliere l’acciaio finale, stratificato come lo è il pensiero che l’ha portata fino a qui, a partire dallo studio di cui vi dicevo poco fa, dai disegni ai rilievi, ai giorni passati a studiare la ceramica antica nei musei, fino alla matematica e ad altri tipi di disegno nelle serate di progetto e riflessione. Ne è risultato un bel pezzo secondo me, una bella e forte metafora della mia vita votata a disegnare. Una ceramica specchiata poi perché specchio dello spazio, specchiante segni e movimenti dello stesso, cinetica quanto l’avvicinamento delle mani che la toccano, quanto il cambiamento dell’atmosfera, in divenire insomma, ferma ma cangiante quanto il tempo che mi ha restituito quei segni che io stesso ho poi rielaborato, per essere riportati nel presente, insieme a me e insieme a voi.
Vi lascio con una musica, la musica che mi ha fatto vedere Echoes prima di Echoes, e una foto degli artisti che, senza nulla conoscere di questa storia, hanno forse sentito Echoes chiamare a sé la nostalgia per il mare, la restituzione ad una terra vergine, la propria, all’acqua, ad un tempo antico al quale, probabilmente lei vorrebbe ancora appartenere. Una storia e una forma, reale quanto la ceramica di cui è fatta, che similmente ha ispirato la poesia di Andrea Calatroni, parte integrante del progetto insieme ai fotografi Andrea Rinaldi e Marco Pilotto, i Markandré.